Dopo
molti anni che ci pensavamo siamo finalmente giunti alla fase operativa
finale. Sì, fondiamo la A.V.A., Associazione Veneta dell’Acquarello.
Per arrivarci è stato necessario mettere a frutto quattordici
anni di attività di Ossidiana ed un numero ormai piuttosto consistente
di appassionati. Dopo tutti questi anni appunto, si è formato
nel vicentino un importante nucleo di professionisti e appassionati
della pittura che hanno eletto questa meravigliosa tecnica artistica
a loro mezzo espressivo prevalente. Naturalmente, il compito precipuo
di questa neonata associazione sarà quello di dare continuo impulso
alla pratica dell’acquarello favorendo i contatti tra gli appassionati
e il relativo scambio di informazioni ed esperienze sulle attività
connesse: corsi, stages, concorsi, ex-tempore, mostre, nonchè
di favorire i rapporti/confronti con altre associazioni analoghe. Associazioni
di acquarellisti infatti ne esistono al mondo un paio di centinaia,
dalla “America Watercolor Society” nata nel 1866 all’Associazione
Acquarellisti Lombardi del 1910, fino alla milanese “Associazione
Italiana Acquarellisti” nata nel 1974.
Arriveremo buoni ultimi, è vero, ma contiamo di farci notare,
anche con iniziative originali e stimolanti, presso le istituzioni pubbliche
e private del nostro territorio e non solo.
Sede dell’associazione sarà naturalmente Ossidiana e mezzi
di diffusione delle informazioni relative all’associazione stessa
saranno la newsletter “Ossidiana-Time” ed un sito Web appositamente
allestito che entrerà in funzione da settembre.
Auspichiamo quindi che l’Associazione Veneta dell’Acquarello
cresca e diventi un importante punto di riferimento per artisti, appassionati
ed estimatori.
Toni Vedù
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Immaginate
il fotografo come un minatore: l’uno e l’altro scavano per
portare alla luce cose preziose, scartando tonnellate di materiale inutile.
C’è chi scava la terra per estrarre diamanti e chi scruta
con il suo terzo occhio tra le cose che ci circondano per vederle meglio,
congelate in un millesimo di secondo. Aspetti forse marginali di quel
grande e incomprensibile fenomeno di illusioni ottiche ed elettriche
che raccogliamo sotto il nome di “vita”, prendono di colpo
valore e significato in chi li guarda. Ovviamente ci sono vari modi
di scavare. Perché non definirlo “stile”? Si potrebbe
restare affascinati dallo stile di “scavo” di Ansel Adams,
fotografo naturalista americano dei grandi paesaggi, oppure seguire
quello di Diane Arbus, che condensava in bianco e nero i nostri moderni
spaesamenti quotidiani. Ma perché non seguire allora lo stile
di Josip Koudelka, il poeta della vita degli zingari o quello di Luigi
Ghirri, il Magritte della fotocamera? Di Adams, tralasciando le sue
pesantissime macchine fotografiche, potremmo far nostro un suo cruccio:
“La miglior foto è quella che non ho mai fatto”,
che ben ci lascia comprendere il senso della ricerca che ci dovrebbe
animare, quando la fotografia faccia parte dei nostri interessi. Se
per lui essere fotografo significava anche spostarsi a dorso di mulo
tra i canyon dell’Arizona, così per noi potrebbe valere
anche l’approccio che il fotografo italiano Ugo Mulas, ha con
l’elemento meccanico: “…Al fotografo il compito di
individuare una sua realtà, alla macchina quella di registrarla
nella sua totalità”. Chi ama la fotografia dovrà
allora fare i conti con due elementi molto diversi tra loro: le proprie
scarpe (estensione della propria testa) e la macchina fotografica. Con
le prime cercheremo, troveremo situazioni interessanti, daremo sfogo
alla curiosità, gireremo attorno al nostro soggetto. Con la seconda
registreremo i momenti che più ci sembrano interessanti, “estrarremo
i nostri diamanti” perfino fotografando la famigliola in gita
a Venezia, magari usando un tempo lungo per avere i piccioni mossi.
E se i piedi non si cambiano con facilità, qualcosa di più
si può fare per la macchina fotografica. Una bella foto si può
ottenere anche con il foro stenopeico, ma oggi abbiamo a disposizione
fotocamere digitali (e qualcuno penserà anche al proprio telefonino).
Di certo ci sarà meno poesia perché è tutto immediatamente
visibile sul display e l’ansia per un buon risultato è
del tutto scomparsa in questo moderno Polaroid a matrice televisiva.
Che si guardi nel mirino di una meccanica o nel display di una digitale,
da lì estraiamo e ricreiamo la nostra fetta di mondo racchiudendola
in pochi centimetri quadrati. Poi, per qualche secondo siamo arbitri
di dare alla scena che abbiamo inquadrato un sapore comico o un’aura
drammatica. Questa scelta ci verrà probabilmente dettata dal
nostro stato d’animo o dal rispetto per chi abbiamo di fronte;
per esprimerla al meglio dovremo conoscere
regole come composizione, prospettiva o uso del colore, fosse pure per
trasgredirle e aggiungeremo conoscenze di tecnica fotografica con integrazioni
informatiche. Così ad esempio, cercheremo soggetti chiari per
scattare foto in chiave alta, useremo inquadrature dal basso se vorremo
dare importanza o incombenza al soggetto o daremo una controllata al
bilanciamento del bianco. E ogni volta uno scatto non sarà mai
uguale all’altro, in una propria e personale partecipazione ad
un caos, dove come diceva Diane Arbus, ci sono cose che nessuno vede
prima che siano fotografate.
Paolo Zanasco
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Trent’anni
di interesse e passione per lo studio della corporeità, dall’espressività
alla comunicazione, dall’aspetto artistico a quello del benessere,
dall’approccio tecnico a quello simbolico, hanno improntato la
sua vita tra ricerca, elaborazione di metodi originali, rinnovate conoscenze.
Quest’anno a Ossidiana condurrà anche le lezioni di Espressione
Corporea per il teatro.
Perché
per fare teatro è necessario un buon training sul linguaggio
del corpo?
Il linguaggio del corpo appartiene a quei linguaggi considerati figli
di un dio minore dalla nostra cultura. Ma gli studiosi della comunicazione
da decenni ci dicono che la comunicazione interpersonale avviene prevalentemente
attraverso il linguaggio del corpo e che questo ha caratteristiche specifiche
che non sono le stesse del linguaggio verbale. Con il linguaggio corporeo,
anche senza volerlo, si comunica sempre e in modo prevalentemente inconsapevole,
rivelando le emozioni, i pensieri, le vere intenzioni. Infatti la postura,
la qualità dei movimenti, la mimica del volto, i gesti e le azioni
che compiamo, lo spazio che usiamo, il respiro, il tono della voce,
sono tutti elementi che rivelano qualcosa che va al di là del
contenuto manifesto delle parole. Inoltre colorano le parole stesse
con uno stile personale, vengono captati all’istante dagli altri
corpi… e le loro modalità sono sicuramente contagiose,
per esempio se ti parlo sottovoce è facile che tu mi risponda
abbassando il tuo volume.
E per chi
vuole fare teatro?
Penso che allenarsi a rafforzare e gestire le proprie
capacità comunicative a tutto tondo sia fondamentale per chi
vuole fare teatro e si ritroverà di fronte al pubblico con tutta
la portata della propria presenza. Per essere presenti, a se stessi
prima di tutto, sicuri, aperti, con un respiro che comunica vita, con
il piacere di stare sulla scena, di lasciare che il sentire vada a modellare
lo stare e il fare del corpo, è necessario un allenamento specifico
che porti il corpo ad essere in sintonia con ciò che si sta recitando,
dando vita e senso al testo stesso.
In quest’ottica
quale sarà il training corporeo nei corsi di teatro?
In un corso di base sarà un lavoro sull’ascolto di sé
e del gruppo, per lasciare, una volta tanto, riposare la mente giudicante,
ed ascoltare le sensazioni, le percezioni e le immagini che derivano
da ciò che il corpo sta o non sta facendo, senza la preoccupazione
di voler definire a parole prima di ascoltare, di voler capire prima
di “avere sentito”. C’è un testo letterario
che viene da fuori e c’è un testo intimo che sta scritto
in ciascuno di noi: il lavoro sul corpo aiuta a collegare questi due
mondi a cogliere le evocazioni, a trovare un senso comune, concretizzando
poi in forme ed azioni le energie risvegliate.
Quindi per
un attore è fondamentale allenarsi ad ascoltare.
E’ fondamentale, come attivare le capacita’ percettive per
ricevere i segnali di feedback che provengono da sé e dal pubblico
per poterli poi utilizzare. Attivare tutte le antenne per diventare
esperti nel processo circolare comunicativo interpersonale, nel rapporto
tra io e non io, tra attore e spettatore. Ma anche per destreggiarsi
con disinvoltura, consapevolezza e sincerità nel continuo gioco
elastico di scambi tra dentro e fuori, tra l’immaginare e il toccare,
tra l’attività della mente e l’attività sensibile,
tattile del corpo, tra il mio paesaggio e gli altri paesaggi, il mio
microcosmo ed il macrocosmo esterno...
Il nostro corpo, attraverso la continuità del suo esistere e
attraverso la sua capacità di cambiamento, è un buon maestro
contemporaneamente di stabilità e di forza creativa, qualità
indispensabili per un attore, come la sua abilità di usufruire
e godere elasticamente di queste capacità.
E per il
corso del secondo anno che lavoro proponi?
Un training corporeo che parte da consegne di tipo tecnico
per andare da una parte ad arricchire il bagaglio della consapevolezza
e padronanza corporea e dall’altra a scoprire e rinforzare il
senso di quel gesto, di quella postura, di quell’uso dello spazio,
del tempo e dell’energia.
Uno studio pratico per riconoscere e apprendere i parametri della comunicazione,
sempre con uno sguardo attento e chiaro alle connessioni tra corpo e
persona, tra movimento/gesto/atteggiamento e ciò che si è/l’emozione/il
sentire personale.
Coniugare rigore ed immaginazione per costruire un impianto gestuale
solido, una base corporea consapevole e ricca, sulla quale scoprire
e usare il potere delle variazioni.
E’ un’attività che da una parte serve a centrarsi,
a radicarsi in sé, a identificarsi con le proprie caratteristiche
per acquisire stabilità, forza, presenza… dall’altra
serve a decondizionare, a sradicare dai luoghi comuni che opacizzano
e appiattiscono, a scrostare gli stereotipi che imprigionano, per ritrovare
e valorizzare ombre e luci proprie. Così si incontrano e si utilizzano
i limiti e le possibilità personali, ridando luce propria a ciascuno.
Magari non tutti brilleremo a 18 carati… ma per fortuna! E comunque
non saremo dei falsi!
Veri e ripuliti da vecchie maschere non scelte, pronti per andare in
scena a indossare le maschere che vogliamo noi.
Gianni Gastaldon
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