OSSIDIANA TIME 25
newsletter semestrale di Ossidiana Centro Culturale e di Espressione

settembre 2006
tredicesimo anno



Cercare la natura delle forze dentro di sé
Nasce il secondo Studio teatrale a Ossidiana


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OSSIDIANA TIME 25
 

Gli uomini, in arte, non si incontrano per caso. C’è chi arde dal desiderio di partecipare le proprie esperienze, e chi vuole andare avanti; è impossibile restare fermi perché le forze interiori diventano più robuste, e crescono e cercano nuove vie per esprimersi in azione creativa.” Iniziava così nel 1918 la prima lezione della “scuola” di teatro di Kostantin Stanislawskij al teatro Bol’šoj di Mosca. E continuava affermando di essere fermamente convinto “dell’impossibilità oggi, quando da un attore si esige così tanto, di diventare attore senza aver fatto parte di uno studio.”
Il percorso apertosi nel 2005 presso Ossidiana è nato dall’idea di costituire un laboratorio, uno Studio come lo si chiamava allora, in cui diverse persone si incontrassero nell’arte del teatro. Persone accomunate dalla ricerca di nuove vie per esprimere quell’azione creativa, a volte solo intuita come un’urgenza, a volte sopita dall’abitudine della professione, a volte impantanata in un labirinto di false necessità.
In questo Studio le guide Carlo Presotto, Titino Carrara e Marco Artusi hanno individuato un luogo di ricerca artistica, un laboratorio dove sperimentare ed affinare strumenti di lavoro che poi andranno ad utilizzare nei loro spettacoli.
Scriveva un importante osservatore del teatro contemporaneo, Gerardo Guccini del Dams di Bologna, che per tutta una generazione di teatranti la ricerca dei nuovi linguaggi della scena non si svolge più nel chiuso delle sale prove o nell’ascesi del training, ma nelle sale da laboratorio, a contatto con le persone più disparate delle età più diverse.
E’ interessante pensare ad una scuola di teatro come ad una “scuola d’arte” umanistica, in cui diversi maestri scelgono di uscire dal chiuso della trasmissione diretta che avviene nella loro bottega, con il discepolo/apprendista, per aprirsi al rischio del confronto comune con una scuola, una comunità di allievi e compagni di strada.
“Ma bisogna liberarsi dal pregiudizio che sia possibile insegnare a qualcuno a rappresentare questo o quel sentimento. Non si può insegnare a rappresentare proprio a nessuno.”
I momenti di vita sulla scena, momenti irripetibili in cui l’attore infonde passione vera in una circostanza data, non sono affatto momenti casuali ma frutto di un lungo lavoro su se stessi: nessun ostacolo casuale, nell’attore stesso o intorno a lui, riesce più a distogliere l’attenzione o la concentrazione del lavoro.
Se il senso del teatro fosse solo nel divertimento degli spettatori, non varrebbe la pena di dedicarvi tanta fatica.
“Ma che cosa è assolutamente indispensabile per rivolgersi agli spettatori con un’arte comprensibile e necessaria? Se non ci renderemo conto che la base di tutta la vita umana - il ritmo che all’uomo dà la natura, cioè la respirazione – è anche la base di tutta l’arte, non saremo mai in grado di trovare l’unico e solo ritmo di un’intera rappresentazione e di trasformare la rappresentazione in un insieme armonioso subordinando a questo ritmo tutti coloro che vi prendono parte. Il ritmo, che ogni attore deve scoprire da sé nella vita, ha origine dalla respirazione, presupposto fondamentale della vita e quindi dell’intero organismo.” (Stanislavskij)
Che senso ha studiare insieme, se la ricerca del teatro è così personale?
Nonostante il lavoro su di sé sia unico ed irripetibile, esiste una vasta serie di attività che riguarda allo stesso modo tutti gli attori creativi, quale sia la loro attrezzatura di “tecniche”, perché permette ad ognuno di cercare la stessa cosa, la natura delle forze che porta dentro di sé. Come trovarle e scoprirle, con quali mezzi svilupparle e depurarle, così da diventare un attore che attraverso la bellezza incontra lo spettatore, è il lavoro comune dello studente e della guida, la strada comune che porta alla perfezione.
Dal primo studio di quest’anno nasce un secondo studio in cui si iniziano a manifestare due diverse direzioni di lavoro: la prima che dalla ricerca su di sé si affaccia alla rappresentazione ed al testo, la seconda che invece parte dal testo e dalla messa in scena per compiere un viaggio dentro se stessi.
Il viaggio continua!
Carlo Presotto


Il Tartufo di Moliere
Vera e propria bomba di cattiveria spolverata di zucchero al velo

Dopo aver servito al suo pubblico i migliori romanzi della tradizione europea, intercalati da un morso di Omero, un assaggio di Casanova e un’indigestione di Lewis Carroll, Beato chi legge lancia una nuova sfida e ai suoi vecchi e nuovi iscritti porge su un vassoio d’argento il Tartufo (1669), la più grande commedia di Molière, forse la commedia più bella in assoluto, più di tutte quelle scritte da Aristofane e Shakespeare e Anouilh. Autore riverito e non abbastanza letto, applaudito ma poco amato, il buon Molière è ancora in attesa di incontrare, specialmente in Italia, un pubblico dal palato predisposto, in grado di apprezzare a dovere i suoi testi teatrali sapidi e intelligentissimi, vere e proprie bombe di cattiveria spolverate di zucchero al velo.
Leggere il Tartufo, muoversi tra i suoi ingranaggi, conoscerne le leve segrete e i doppi fondi significa allora entrare nella cucina di Molière (1622-1673), uomo che è stato a un tempo scrittore, attore, capocomico e impresario teatrale; ma vuol dire anche, e finalmente, accomodarsi nella poltrona riservata al commensale del Tartufo di ogni tempo e messinscena, il quale ride, si indigna, si sgomenta e si commuove perché davvero non può farne a meno - perché così Molière ha voluto. Un pasto in piena regola, insomma, dove al piacere di stare chini sul testo si alterna il divertimento di poterne gustare, di tanto in tanto, un’interpretazione non agghindata, convinta, convincente.
Il titolare del corso assicura che il Tartufo non verrà servito freddo e scipito ma in una nuova traduzione italiana, moderna e al passo con gli umori e la potenza afrodisiaca dell’originale. Attori e registi e gente di teatro parteciperanno en passant al festino in qualità di inservienti di lusso, nella speranza di rendere il piatto ancora più saporito, la lettura ancora più interminabile e voluttuosa.
Marco Cavalli


Nasce l’Associazione Veneta dell’Acquarello

Dopo molti anni che ci pensavamo siamo finalmente giunti alla fase operativa finale. Sì, fondiamo la A.V.A., Associazione Veneta dell’Acquarello. Per arrivarci è stato necessario mettere a frutto quattordici anni di attività di Ossidiana ed un numero ormai piuttosto consistente di appassionati. Dopo tutti questi anni appunto, si è formato nel vicentino un importante nucleo di professionisti e appassionati della pittura che hanno eletto questa meravigliosa tecnica artistica a loro mezzo espressivo prevalente. Naturalmente, il compito precipuo di questa neonata associazione sarà quello di dare continuo impulso alla pratica dell’acquarello favorendo i contatti tra gli appassionati e il relativo scambio di informazioni ed esperienze sulle attività connesse: corsi, stages, concorsi, ex-tempore, mostre, nonchè di favorire i rapporti/confronti con altre associazioni analoghe. Associazioni di acquarellisti infatti ne esistono al mondo un paio di centinaia, dalla “America Watercolor Society” nata nel 1866 all’Associazione Acquarellisti Lombardi del 1910, fino alla milanese “Associazione Italiana Acquarellisti” nata nel 1974.
Arriveremo buoni ultimi, è vero, ma contiamo di farci notare, anche con iniziative originali e stimolanti, presso le istituzioni pubbliche e private del nostro territorio e non solo.
Sede dell’associazione sarà naturalmente Ossidiana e mezzi di diffusione delle informazioni relative all’associazione stessa saranno la newsletter “Ossidiana-Time” ed un sito Web appositamente allestito che entrerà in funzione da settembre.
Auspichiamo quindi che l’Associazione Veneta dell’Acquarello cresca e diventi un importante punto di riferimento per artisti, appassionati ed estimatori.
Toni Vedù


Il fotografo come un minatore
Ci sono cose che nessuno vede prima che siano fotografate

Immaginate il fotografo come un minatore: l’uno e l’altro scavano per portare alla luce cose preziose, scartando tonnellate di materiale inutile. C’è chi scava la terra per estrarre diamanti e chi scruta con il suo terzo occhio tra le cose che ci circondano per vederle meglio, congelate in un millesimo di secondo. Aspetti forse marginali di quel grande e incomprensibile fenomeno di illusioni ottiche ed elettriche che raccogliamo sotto il nome di “vita”, prendono di colpo valore e significato in chi li guarda. Ovviamente ci sono vari modi di scavare. Perché non definirlo “stile”? Si potrebbe restare affascinati dallo stile di “scavo” di Ansel Adams, fotografo naturalista americano dei grandi paesaggi, oppure seguire quello di Diane Arbus, che condensava in bianco e nero i nostri moderni spaesamenti quotidiani. Ma perché non seguire allora lo stile di Josip Koudelka, il poeta della vita degli zingari o quello di Luigi Ghirri, il Magritte della fotocamera? Di Adams, tralasciando le sue pesantissime macchine fotografiche, potremmo far nostro un suo cruccio: “La miglior foto è quella che non ho mai fatto”, che ben ci lascia comprendere il senso della ricerca che ci dovrebbe animare, quando la fotografia faccia parte dei nostri interessi. Se per lui essere fotografo significava anche spostarsi a dorso di mulo tra i canyon dell’Arizona, così per noi potrebbe valere anche l’approccio che il fotografo italiano Ugo Mulas, ha con l’elemento meccanico: “…Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quella di registrarla nella sua totalità”. Chi ama la fotografia dovrà allora fare i conti con due elementi molto diversi tra loro: le proprie scarpe (estensione della propria testa) e la macchina fotografica. Con le prime cercheremo, troveremo situazioni interessanti, daremo sfogo alla curiosità, gireremo attorno al nostro soggetto. Con la seconda registreremo i momenti che più ci sembrano interessanti, “estrarremo i nostri diamanti” perfino fotografando la famigliola in gita a Venezia, magari usando un tempo lungo per avere i piccioni mossi. E se i piedi non si cambiano con facilità, qualcosa di più si può fare per la macchina fotografica. Una bella foto si può ottenere anche con il foro stenopeico, ma oggi abbiamo a disposizione fotocamere digitali (e qualcuno penserà anche al proprio telefonino). Di certo ci sarà meno poesia perché è tutto immediatamente visibile sul display e l’ansia per un buon risultato è del tutto scomparsa in questo moderno Polaroid a matrice televisiva. Che si guardi nel mirino di una meccanica o nel display di una digitale, da lì estraiamo e ricreiamo la nostra fetta di mondo racchiudendola in pochi centimetri quadrati. Poi, per qualche secondo siamo arbitri di dare alla scena che abbiamo inquadrato un sapore comico o un’aura drammatica. Questa scelta ci verrà probabilmente dettata dal nostro stato d’animo o dal rispetto per chi abbiamo di fronte; per esprimerla al meglio dovremo conoscere regole come composizione, prospettiva o uso del colore, fosse pure per trasgredirle e aggiungeremo conoscenze di tecnica fotografica con integrazioni informatiche. Così ad esempio, cercheremo soggetti chiari per scattare foto in chiave alta, useremo inquadrature dal basso se vorremo dare importanza o incombenza al soggetto o daremo una controllata al bilanciamento del bianco. E ogni volta uno scatto non sarà mai uguale all’altro, in una propria e personale partecipazione ad un caos, dove come diceva Diane Arbus, ci sono cose che nessuno vede prima che siano fotografate.
Paolo Zanasco

L'intervista a
Franca Pretto
Coniugare rigore ed immaginazione per costruire un impianto gestuale solido

Trent’anni di interesse e passione per lo studio della corporeità, dall’espressività alla comunicazione, dall’aspetto artistico a quello del benessere, dall’approccio tecnico a quello simbolico, hanno improntato la sua vita tra ricerca, elaborazione di metodi originali, rinnovate conoscenze. Quest’anno a Ossidiana condurrà anche le lezioni di Espressione Corporea per il teatro.

Perché per fare teatro è necessario un buon training sul linguaggio del corpo?
Il linguaggio del corpo appartiene a quei linguaggi considerati figli di un dio minore dalla nostra cultura. Ma gli studiosi della comunicazione da decenni ci dicono che la comunicazione interpersonale avviene prevalentemente attraverso il linguaggio del corpo e che questo ha caratteristiche specifiche che non sono le stesse del linguaggio verbale. Con il linguaggio corporeo, anche senza volerlo, si comunica sempre e in modo prevalentemente inconsapevole, rivelando le emozioni, i pensieri, le vere intenzioni. Infatti la postura, la qualità dei movimenti, la mimica del volto, i gesti e le azioni che compiamo, lo spazio che usiamo, il respiro, il tono della voce, sono tutti elementi che rivelano qualcosa che va al di là del contenuto manifesto delle parole. Inoltre colorano le parole stesse con uno stile personale, vengono captati all’istante dagli altri corpi… e le loro modalità sono sicuramente contagiose, per esempio se ti parlo sottovoce è facile che tu mi risponda abbassando il tuo volume.

E per chi vuole fare teatro?
Penso che allenarsi a rafforzare e gestire le proprie capacità comunicative a tutto tondo sia fondamentale per chi vuole fare teatro e si ritroverà di fronte al pubblico con tutta la portata della propria presenza. Per essere presenti, a se stessi prima di tutto, sicuri, aperti, con un respiro che comunica vita, con il piacere di stare sulla scena, di lasciare che il sentire vada a modellare lo stare e il fare del corpo, è necessario un allenamento specifico che porti il corpo ad essere in sintonia con ciò che si sta recitando, dando vita e senso al testo stesso.

In quest’ottica quale sarà il training corporeo nei corsi di teatro?
In un corso di base sarà un lavoro sull’ascolto di sé e del gruppo, per lasciare, una volta tanto, riposare la mente giudicante, ed ascoltare le sensazioni, le percezioni e le immagini che derivano da ciò che il corpo sta o non sta facendo, senza la preoccupazione di voler definire a parole prima di ascoltare, di voler capire prima di “avere sentito”. C’è un testo letterario che viene da fuori e c’è un testo intimo che sta scritto in ciascuno di noi: il lavoro sul corpo aiuta a collegare questi due mondi a cogliere le evocazioni, a trovare un senso comune, concretizzando poi in forme ed azioni le energie risvegliate.

Quindi per un attore è fondamentale allenarsi ad ascoltare.
E’ fondamentale, come attivare le capacita’ percettive per ricevere i segnali di feedback che provengono da sé e dal pubblico per poterli poi utilizzare. Attivare tutte le antenne per diventare esperti nel processo circolare comunicativo interpersonale, nel rapporto tra io e non io, tra attore e spettatore. Ma anche per destreggiarsi con disinvoltura, consapevolezza e sincerità nel continuo gioco elastico di scambi tra dentro e fuori, tra l’immaginare e il toccare, tra l’attività della mente e l’attività sensibile, tattile del corpo, tra il mio paesaggio e gli altri paesaggi, il mio microcosmo ed il macrocosmo esterno...
Il nostro corpo, attraverso la continuità del suo esistere e attraverso la sua capacità di cambiamento, è un buon maestro contemporaneamente di stabilità e di forza creativa, qualità indispensabili per un attore, come la sua abilità di usufruire e godere elasticamente di queste capacità.

E per il corso del secondo anno che lavoro proponi?
Un training corporeo che parte da consegne di tipo tecnico per andare da una parte ad arricchire il bagaglio della consapevolezza e padronanza corporea e dall’altra a scoprire e rinforzare il senso di quel gesto, di quella postura, di quell’uso dello spazio, del tempo e dell’energia.
Uno studio pratico per riconoscere e apprendere i parametri della comunicazione, sempre con uno sguardo attento e chiaro alle connessioni tra corpo e persona, tra movimento/gesto/atteggiamento e ciò che si è/l’emozione/il sentire personale.
Coniugare rigore ed immaginazione per costruire un impianto gestuale solido, una base corporea consapevole e ricca, sulla quale scoprire e usare il potere delle variazioni.
E’ un’attività che da una parte serve a centrarsi, a radicarsi in sé, a identificarsi con le proprie caratteristiche per acquisire stabilità, forza, presenza… dall’altra serve a decondizionare, a sradicare dai luoghi comuni che opacizzano e appiattiscono, a scrostare gli stereotipi che imprigionano, per ritrovare e valorizzare ombre e luci proprie. Così si incontrano e si utilizzano i limiti e le possibilità personali, ridando luce propria a ciascuno. Magari non tutti brilleremo a 18 carati… ma per fortuna! E comunque non saremo dei falsi!
Veri e ripuliti da vecchie maschere non scelte, pronti per andare in scena a indossare le maschere che vogliamo noi.
Gianni Gastaldon