Paul Gauguin volle lasciare in eredità ai suoi seguaci il “diritto
di tutto osare”. Con la sua ricerca delle origini primitive dell’ispirazione
e l’uso prepotente del colore, tale eredità segnò
il passaggio dall’impressionismo alla pittura moderna. E proprio
la selvaggia violenza del colore caratterizzò la nascita del
moderno attraverso il movimento di quanti vennero definiti i “Fauves”
(le belve), capitanato da Matisse. Luogo e data di nascita: Parigi,
1905. Vennero messi in discussione tutti i fondamenti della pittura
e non solo della pittura. Dovendo -come in un quadro di Fontana- segnare
la tela dell’arte moderna con poche incisioni, sceglieremmo tre
linee (decise e profonde).
La prima é il passaggio tra un’arte che racconta il mondo
volendo aiutare la gente a capirlo ad un’arte tesa a far intuire
le sensazioni dell’artista, unica giustificazione della sua opera.
Per i moderni, la ricerca della razionalità si esaurì
nel cubismo “analitico”, con la sua pretesa di trasporre
le tre dimensioni del reale sulle due dimensioni della superficie del
quadro, e col costruttivismo della Bauhaus attratto dalla tecnologia,
dall’architettura a dal design.
Il resto fu ribellione a tutta la cultura romantico-borghese, a partire
dal movimento Dada, partito da Zurigo e sbarcato in America. Fu inquietudine,
rivolta contro la ragione, bisogno di radicalismo, ricerca della verità
ad ogni costo, rifiuto dell’ordine e della storia a favore dell’espressione
della pura emozione. Il passaggio avviene all’interno dello stesso
cubismo. All’affermazione di Braque “amo la regola che corregge
l’emozione”, Gris risponde categorico che l’emozione
deve correggere la regola.
Dal canto loro i futuristi italiani sanzioneranno un’arte non
più rivolta agli oggetti, m agli stati d’animo, proponendo
la lotta (e la guerra) come costante e la cattura della velocità
come ideale capace di dominare la tecnologia vincente nella società.
L’onda lunga del nichilismo Dada arriverà fino a tentare
la stessa negazione dell’arte con certo minimalismo degli anni
‘60 (“il valore estetico si fonda su una paradossale mancanza
di contenuto artistico”), con l’effimero dell’happening
o con la riduzione a semplice parola dei concettuali.
Duchamp afferma che qualsiasi oggetto può diventare opera d’arte
semplicemente etichettandolo come tale e per dimostrarlo espone un orinatoio
di porcellana cui aggiunge solo la firma.
La seconda linea tenta di fondere l’arte con la vita (intesa come
quotidianità e “non arte”). Il passaggio avviene
prima nell’artista che, ribellatosi alla società e alle
sue costruzioni, si ripiega su se stesso per ascoltarsi. Finirà
(con la Body Art) col trasformare se stesso in un’opera d’arte,
asserendo di incarnare la nozione stessa di arte. Egli scava dentro
se stesso, cercando di comunicare le sue sensazioni in modi sempre più
rarefatti, ma sempre meno interessato alla comprensione del pubblico.
Così l’espressionismo, sviluppatosi in Germania e trasferitosi
in America, spostando il centro culturale da Parigi a New York, si fa
sempre più astratto. Da parte sua, il surrealismo tenta di dare
forma all’inconscio e, senza alcuna mediazione razionale, si propone
di agire per puro automatismo psichico, incurante di ragione, morale
ed estetica. Ma a contatto con l’ambiente americano (dove pur
esso trasmigra a causa della guerra) si esaurisce presto, lasciando
il vuoto emotivo. In questo vuoto, viene riscoperta la realtà
esterna, assunta così com’é, criticata con la sola
ironia, ma sostanzialmente accettando quanto si era fino ad allora rifiutato.
La resa alla società industriale, con tutte le sue deformità,
viene pagata con un distacco emotivo mosso dalla paura. Una seconda
ondata di nichilismo dopo quella dadaista.
E’ la Pop Art, che tenta di collegare avanguardia e massa usando
“le immagini e i manufatti della cultura di massa come strumento
per sconcertare il centro borghese, i cui membri si considerano tradizionali
custodi della cultura”. Sarà il fenomeno di una generazione,
capace però di larga accettazione popolare e che avrà
strascichi più vicini a noi, ad esempio con l’iperrealismo
(soprattutto americano) degli anni ‘70.
La terza linea di lettura concerne il rapporto tra arte popolare e d’élite.
L’arte, da sempre, ha avuto funzioni di comunicazione con il pubblico:
voleva rappresentare. Queste funzioni furono diverse: magica della preistoria,
estetica dei greci, pratico-celebrativa a Roma, didattica nel medioevo,
e così via. D’altraparte, “l’arte -comunque
la si voglia definire o circoscrivere- ha sempre avuto il compito di
riflettere, assecondandole o avversandole, le situazioni emergenti della
società entro cui si manifesta”. Così la Pop Art
non poteva che svilupparsi in America e l’Espressionismo in Germania.
Anzi, dopo la parentesi bellica, vi è ritornato, ulteriormente
incupito dai sensi di colpa del genocidio nazista. Così i futuristi
esaltarono la velocità indotta dalla tecnica, i surrealisti adottarono
la psicoanalisi e lo stesso nipote di Freud, Lucian, divenne neo-espressionista,
il disordine delle guerre mondiali venne anticipato dal dadaismo, l’ambientalismo
trovò la sua Earth Art ed il femminismo trasferì sulla
tela tecniche e materiali quotidiani da sempre patrimonio della donna.
Nonostante tutte le sue ribellioni, resta però anche vero che
l’arte è sempre stata mantenuta dall’élite
rappresentante la società del momento. Paradossalmente l’arte
moderna ha accentuato tale sua dipendenza, aprendosi totalmente al dominio
della critica prima e del mercato poi. Tutto può andar bene purché
riconoscibile a vista, di prezzo già alto ma con prospettive
di crescita e richiesto dall’emozione del momento. Che altro può
spingere un’élite mercantile ad acquistare tutti i quadri
di un certo Banjamin Mendoza y Amor se non il fatto che questi attentò
alla vita del Papa nelle Filippine?
Ma l’arte moderna fa di più. Come poteva un’arte
ad un certo punto definita perfino “mandarinesca” operare
in una società democratica? Incapace di conciliare il radicalismo
artistico (che la spingeva all’astrazione pura) con quello politico
(che richiedeva di farsi capire dalle masse), alla fine sceglie il primo,
appoggiandosi all’élite intellettuale e facendosi acquistare
da quella economica. Toulouse Lautrec affermò: “L’arte
è come la merda: si sente, non si spiega”. Da allora l’arte
si avvia a dividere il suo pubblico “in due classi di persone:
quelli che capiscono e quelli che non capiscono”. A dispetto del
suo nome e del favore che godette presso il pubblico la Pop Art non
fu mai genuinamente popolare, nonostante cercasse disperatamente la
realtà: la scatola di Brillo di Andy Warhol era (forse) un’opera
d’arte, ma certamente una scatola di Brillo.
Il sociologo dell’era moderna Daniel Bell afferma che, come per
Marx, Freud e Pareto l’apparente razionalità della realtà
si fonda sull’irrazionalità che le sta sotto, così
il movimento dell’arte moderna insiste sulla mancanza di significato
dalle apparenze e cerca il substrato dell’immaginazione. Lo fa
in due modi: eliminando la “distanza” (psichica, sociale
ed estetica) per cercare l’immediatezza dell’esperienza
e affermando l’assoluta imperatività dell’individuo.
Non importa che gli altri capiscano.
Lorenza Stella
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