Come
ti sei avvicinato al teatro e che valore ha per te adesso?
Ho conosciuto il teatro attraverso il clown, un po’ per gioco,
e subito me ne sono innamorato. E come per tutti gli innamorati il soggetto
amato è diventato per me una necessità della quale non
ho più saputo fare a meno. L’imprinting clownesco lo porto
con me ancora adesso ed è il fondo che mi accompagna in tutto
il mio lavoro teatrale nonostante mi sia formato e continui ad esplorare
altri territori.
Sia come attore, che come regista e soprattutto come pedagogista parto
da questo fondo che oserei definire salvifico, ovvero il saper ridere
di me stesso.
Cioè?
I limiti, le imperfezioni, la nostra assoluta imbranataggine in molte
situazioni della vita sono le fonti a cui mi ispiro costantemente e
penso che siano quelle che hanno ispirato gli scrittori ed i registi
teatrali di tutti i tempi, dai greci ad oggi. Le passioni, i sentimenti,
le emozioni nascono e si nutrono delle nostre instabilità. E’
la tragedia dell’uomo, condannato con la sua imperfezione ad andare
avanti. Tutto questo è il sale della vita e nel teatro è
il sale del racconto, ed il clown lo incarna totalmente.
Secondo te, oggi, cos’ha bisogno di trovare il pubblico
a teatro?
Poesia. E purtroppo in questo momento in giro è difficile trovarla,
sembra che si cerchino soprattutto gli effetti speciali per impressionare
il pubblico. Non ho nulla contro gli effetti speciali, anzi mi affascinano,
ma se sono fine a se stessi dopo un po’ mi stancano. Molto di
rado riesco ad assistere a spettacoli dove una buon livello tecnico
sia accompagnato da sensibilità, genio creativo e qualcosa da
raccontare. Mi vien da dire che c’è poco di vero nel fronte
teatrale. E dicendo questo non metto in dubbio le buone intenzioni di
chi fa questo lavoro, dico solo che sento la mancanza di poeti.
Poeta si nasce o lo si diventa?
Penso che lo si diventi. Certamente ci sono persone più sensibili
di altre verso se stesse e verso il mondo che le circonda e alcune che
più di altre hanno coltivato l’immaginazione e la fantasia
per rielaborare gli stimoli. Penso anche che ci siano persone che più
di altre abbiano la dedizione e la disciplina per perfezionare una tecnica
per poter poi esprimere tutto questo. Nonostante queste diversità
sono comunque tutte qualità che ognuno può sviluppare
secondo le possibilità personali. Basta volerlo veramente ed
essere disposti a lavorare con umiltà, senza lasciare in disparte
un pizzico di follia.
Nella tua esperienza di pedagogista teatrale qual’è
la difficoltà che incontri più spesso nei tuoi allievi?
La paura. A volte incontro persone molto aperte e spiritose che hanno
un’enorme paura di guardarsi dentro e prendere contatto con la
propria sensibilità e la propria storia, a volte invece capita
il contrario ovvero di incontrare persone molto sensibili però
spaventatissime nell’uscire dal proprio guscio.
Agli allievi dei tuoi laboratori cosa insegni.
A fare amicizia con il proprio corpo per poi giocarci assieme. Ognuno
ha i suoi tempi per farlo: a volte succede subito a volte dopo la fine
del corso, a volte dopo anni durante altre esperienze.
Cosa proponi durante i corsi per arrivare a questo?
Propongo corsi su stili teatrali specifici come il mimo, il clown, la
commedia umana, il melodramma o su temi come il gesto, il corpo in gioco
o altri. Alla fine dei corsi generalmente si entra in punta di piedi
a conoscere questi grandi territori teatrali ma sicuramente durante
il percorso si è giocato a muovere il corpo per fargli sperimentare
i movimenti e i punti fissi che stanno alla base di ognuna di queste
dinamiche umane. Il corpo è sede della sensibilità, è
mente, è memoria e alla fine si ricorderà molte più
cose della nostra coscienza. Prendere coscienza di questo è già
un buon punto di arrivo.
Cosa chiedi a chi partecipa ai corsi?
Chiedo il massimo impegno. Tutto poco a poco viene messo in gioco. Non
è importante se si crede di essere dei bachettoni o delle pietre
, il percorso è accessibile a tutti poiché più
limiti ci sono più materiale abbiamo da scoprire e da condividere,
la cosa importante è voler mettersi in gioco. Giocando poi ci
si divertirà.
Quanto importante è la tecnica nell’espressione
teatrale?
Direi che è fondamentale. La tecnica serve per dare una forma
comprensibile a tutto il nostro mondo e a quello che vogliamo dire.
E’ il linguaggio dell’espressione.
Bisogna stare attenti a non abusarne altrimenti ci si chiuderebbe dentro
a dei vuoti virtuosismi.
Quando è ben assunta si aprono le porte al gioco e tutto diventa
di colpo più grande.
E’ come giocare a tennis senza riuscire mai a colpire una palla,
immaginate che agonia enorme andare su e giù a raccogliere palline.
Non appena cominciamo a capire come si fa iniziamo a divertirci. Con
il tempo il corpo va da solo e di volta in volta, a seconda della situazione,
iniziamo a piazzare i colpi.
Dopo il corso di mimo che altri progetti hai in cantiere con
Ossidiana?
C’è in cantiere uno dei workshop estivi di “Al di
là del mare”. Il tema sarà “La Pausa”.
Sarà un viaggio all’interno del movimento per poter capire
meglio la Pausa. Si cercherà di ritrovare nel corpo le dinamiche
presenti in natura (terra, acqua, fuoco, aria) e con queste poi si andrà
a nutrire il gesto e l’azione. Come si siede una pioggia autunnale?
Come aspetta l’autobus una pozzanghera? E un uragano? Come saluta
la fiamma di una candela? E un bosco in fiamme?
Quando arriverà la pausa la dinamica iniziata con il corpo continuerà
nello spazio della scena e raggiungerà il pubblico trasformandosi
in emozione e sentimento.
Il workshop si rivolge a chi desidera approfondire l’esperienza
del proprio corpo, valorizzare le proprie capacità espressive
e avvicinarsi al teatro, e a chi, già attivo nel campo teatrale,
vuole approfondire la dimensione corporea e di movimento del proprio
mondo teatrale.
Gianni Gastaldon
|