OSSIDIANA TIME 5
newsletter semestrale di Ossidiana Centro Culturale e di Espressione

settembre 1996
terzo anno

Il piacere che viene dall’ascolto di una narrazione
Creare suggestioni con le fiabe
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La favola, la fiaba, la fola...mi perdonino gli studiosi o i semplici affezionati di Propp se uso disinvoltamente i tre termini, ma quel che m’interessa è parlare di quel racconto di origine popolare e fantastica, che Propp chiama appunto fiaba o racconto di magia, che spesso ha ispirato poi anche veri e propri letterati e uomini di cultura - e qui possiamo parlare di favola, o racconto, semplicemente, da Esopo ad Andersen, fino ai contemporanei: Rodari, Piumini etc. - che molto spazio dà al lettore o all’ascoltatore facendogli provare quello strano piacere che è il piacere che viene dall’ascolto di una narrazione. La Poesia e la Favola - e pensiamo semplicemente all’Iliade, all’Odissea o all’Eneide - sono nate per l’ascolto; la metrica poetica sia dei greci che dei latini sia quella delle lingue contemporanee, altro non è che un mezzo atto a provocare degli effetti uditivi, quindi fatto per l’orecchio: alla semplice lettura, il risultato artistico è veramente inferiore.
Pensiamo al fascino che esercita ancora su di noi l’immagine del poeta latino che declama il suo carme ad alta voce, o più ancora quella dei trovatori, in particolar modo i provenzali, o più vicino a noi il ricordo del povero questuante che gira di stalla in stalla, gazzettino vivente e creatore ambulante di storie e di visioni, naturalmente in un periodo in cui la società delle immagini date è ben lontana da venire - e questo periodo in Italia finisce col dopoguerra e l’avvento della televisione- La fiaba, in particolar modo, è nata per il bisogno innato dell’uomo di fantasticare o di passare il tempo, semplicemente, ma anche perché con le sue metafore è sempre stata un efficace mezzo per insegnare qualcosa. La fiaba è sempre riuscita a dare delle spiegazioni fantastiche ma soddisfacenti dell’ esistenza umana e sovente ha fornito delle ragioni credibili a chi voleva dimenticare le ansie ed i dolori di un’esistenza spesso stentata e grama.
La fiaba è stata anche mezzo di potere, atta ad incutere timore oppure è divenuta semplice mezzo in mano a poveri vagabondi per ingraziarsi ricchi e potenti: quante ricche mangiate ci sono nelle fiabe che vengono dalla tradizione contadina, e quante fiabe lasciano intravvedere, a consolazione dell’umano vivere, l’esistenza di una Giustizia o di una Felicità possibile. Quante fiabe cercano di spiegare semplici fenomeni naturali o più complessamente hanno funzioni consolatorie od educative...comunque sia, quello che della fiaba è veramente l’elemento magico è la sua capacità di creare suggestioni, visioni, immagini.
Chi come me ha avuto la fortuna di ascoltare qualche vecchio nel Veneto raccontare delle storie di diavoli, salvanèi (o salbanèi), o anguane, o donne furbe e mariti gabbati, con quelle modalità e sonorità, che in una società amplificata e riempita di rumori e parole vane sono andate perdute, e con quella gestualità povera e lenta, che negli anni della fretta è stata soppiantata dai tic e dai movimenti senza senso della nevrosi, si renderà sicuramente conto di quale bene sia andato perduto con la perdita della narrazione, dell’affabulazione.
Ogni vecchio che muore non è solo un archivio di ricordi e di cultura che se ne va, ma è un prezioso gigantesco contenitore pieno di parole, suoni, sussurri e respiri che va inesorabilmente perduto.
Ecco il senso del mio laboratorio di narrazione e ricerca sulla favola, un laboratorio dove metto a disposizione la mia esperienza di attore e di “cercatore” di fiabe popolari, per recuperare quel mondo interno a noi, mondo fatto di suoni e immagini, che il caos, il traffico, lo stress, la televisione, la discoteca, la non cultura o la falsa cultura etc etc etc hanno a poco a poco involato dal corpo, dalla voce e dall’anima.
Pino Costalunga

Riflessioni sulla via del ritorno
Londra bellissima


Il suo fascino è sottile e ti prende a poco a poco, tenacemente ti invade e dopo qualche giorno sei già sicuro che al tuo ritorno ne avrai nostalgia. Il primo impatto non abbaglia; l’ultimo sguardo possiede la netta consapevolezza di aver vissuto, anche se solo per sei giorni, in una città veramente bella. Forse è il modo in cui Londra si fa cercare; non travolge, ma alza con discrezione e gradualmente i suoi sipari, se la vuoi esplorare. Forse è perché pazientemente ti lascia il tempo per farsi integrare e ricomporre nella tua mente, dopo averla inseguita e raggiunta nei suoi meandri. Anche quest’anno eravamo un bel gruppo deciso ad assaporare la nuova meta del viaggio pasquale e, probabilmente, ciascuno di noi potrebbe ora evidenziare un’ immagine differente della città, non perché Londra disorienti o sia caotica, ma perché è come un libro scritto sapientemente con ricchezza di particolari, colpi di scena, personaggi, descrizioni e, chi si lascia catturare da un passaggio, chi da una pagina, chi da una riflessione o da un dialogo. Ma se qualcuno ci avesse chiesto “Ti è piaciuta Londra?” oppure “ Ci torneresti?”oppure ancora “E’ bella, viva, interessante, ricca di arte e storia come dicono?” raccoglierebbe sicuramente risposte simili. Infatti il vecchio cuore dell’Impero Britannico non ha tradito le nostre aspettative ed anche a noi ha offerto generosamente le sue bellezze, conquistandoci. A cominciare dal cielo così variabile, ma altrettanto clemente da regalarci sei giorni miracolosamente asciutti, con ripetuti tentativi di sereno. Neppure una pioggerella, anche se folate di vento si impigliavano volentieri fra i nostri capelli, come fra i rami degli alberi ancora spogli e sulle guglie del parlamento. E siamo passati dalla full immersion tra le opere d’arte nei musei all’oasi di tranquillità dei parchi, dall’enorme quartiere dei Docklands, con ristrutturazioni modernissime, ammirate durante un piacevole tragitto lungo il Tamigi, al traffico e ai rumori delle strade principali. Ma anche in numerosi vicoli interni e nei piccoli spiazzi deserti e silenziosi, intravisti in varie zone dell’enorme città, sembrava che il tempo si fosse fermato, al di là delle grandi arterie trafficate e del variopinto brulicare di mercati, negozi e piazze. Tempo addirittura pietrificato nella famosa Abbazia di Westminster, nei cui anfratti gotici si respira la Storia con le sue reliquie.
Abbiamo attraversato piazze piene di vita, parchi dalle foschie azzurrine, altri verdi e fioriti, abbiamo riconosciuto il suono del Big Ben, camminato e camminato ancora come veri londinesi, ci siamo entusiasmati per il cambio della guardia come veri turisti, sviscerato i segreti della metropolitana, sinceramente facile e sicura, abbiamo affrontato, coraggiosi o rassegnati, la cucina inglese e ci siamo divertiti con il mitico musical “Cats”. A dire la verità ci siamo divertiti in molte occasioni, perché quando si viaggia con un gruppo così simpatico, disponibile e pieno di vita il piacere della compagnia è largamente assicurato!

Franca Pretto


Miti e luoghi comuni di quest’arte visti da Toni Vedù
Acquarello amore mio


Innanzi tutto vorrei provare a sfatare alcuni miti, o forse sarebbe meglio dire luoghi comuni sull’acquarello, condivisi molto spesso anche dagli addetti ai lavori.
Allora, si vuole che l’acquarello sia una tecnica rapida, ma difficile, che non permette pentimenti, ha colori delicati ed è di scarsa definizione, rarefatta. Certo questi sono gli esiti di chi lo usa in maniera tradizionale senza chiedersi cos’altro si possa ottenere da quei delicati cubettini di colore.
Rapida, certamente, soprattutto perchè asciuga rapidamente, ma non è affatto rapida se si fanno velature successive o sovrapposizioni multiple di colore.
Difficile. Neanche per idea. L’acquarello non è più difficile di qualsiasi altra tecnica, basta fare attenzione alle sue peculiari caratteristiche.
Se non si è particolarmente portati per il disegno non importa. L’acquarello è bello perchè permette di dipingere anche se non si è dei maghi del disegno e della pennellata: ci si affida solo al colore e alla tonalità. In tutte le tecniche pittoriche c’è per il principiante, il rischio che io chiamo “Sindrome dell’imbianchino” e che consiste nella tendenza a preparare un po’ di colore omogeneo e poi stenderlo a campiture piatte con pennellate tutte uguali. Per liberarsi di quasto freno psicologico e affidarsi piacevolmente al colore e alle sue variazioni non c’è niente di meglio che l’acquarello, tecnica che lascia quasi tutta questa fase al “libero fluire dei pigmenti nell’acqua con cui viene bagnata la carta.
Non permette correzioni. Non è vero, si può intervenire in varie maniere per rimediare a macchie o brutti accostamenti di colore, si raschia la carta, si lava, si gratta..... si rifà tutto.
Colori delicati. Perchè solo quelli? Si possono fare splendidi dipinti usando anche i blù più scuri, i bruni più profondi, diluiti quel tanto che basta per metterli sulla carta; daranno pur sempre una impressione di trasparenza e leggerezza, lo spessore è nullo.
Scarsa definizione? Certo, dopo la prima passata di colori molto acquosi. Ma se si lavora per sovrapposizioni successive di colore, dal più chiaro al più scuro, può essere dettagliato come un quadro ad olio.
A parte il fatto che, personalmente sono sostenitore del metodo inglese, che consiste nel non usare il bianco, ma nello sfruttare il bianco del foglio, in realtà non c’è un modo “corretto” di usare l’acquarello, le possibilità sono illimitate. Non c’è niente di più noioso che apprendere le tecniche pittoriche in modo accademico. Dipingere è pur sempre una piacevolissima attività e non conviene preoccuparsi troppo di ciò che gli altri pensano, maestro compreso. E infine, chiamiamolo acquarello. Acquerello mi sembra un tantino lezioso ed è termine che evoca i sopraddetti luoghi comuni.

Toni Vedù


L'intervista a
Franca Grimaldi
Appassionata della buona pronuncia italiana e del suono della voce


A Ossidiana, da alcuni anni, Franca Grimaldi, speaker e doppiatrice, mette a disposizione la sua esperienza per chi desidera studiare dizione.

Quali strade ti hanno portato ad essere un’esperta nella corretta pronuncia della lingua italiana?
Più che un’esperta mi considero un’appassionata della buona pronuncia. Ho abitato in molte città italiane, e l’Italia è il paese europeo linguisticamente più frazionato, con dialetti fra loro incomprensibili come lingue straniere. Ma ciò che mi stupisce maggiormente è che quando apprendiamo una lingua straniera, la prima preoccupazione è la corretta pronuncia, mentre questo non avviene per la nostra lingua. La passione per la corretta pronuncia è venuta spontanea, significativo poi abitare molti anni in Toscana e l’incontro nel ‘77 col mondo teatrale. Il lavoro di speaker, che svolgo da più di dieci anni, è stata una spinta maggiore all’approfondimento e allo studio. Nel campo audio la gestualità, che generalmente aiuta la comunicazione, viene a mancare. Si è soltanto voce, e le parole diventano un patrimonio di figure magiche della voce, capaci di dare una forma permanente alle cose.
Cosa è la tua voce per te?
La voce è il mio lavoro, quindi deve essere sempre in forma. Dedico molto tempo all’approfondimento e agli esercizi. Professionalmente lavoro per studi di produzione audio: documentari, spot pubblicitari, doppiaggi. La voce è il mio lavoro, ma anche una parte di me, il prolungamento di me stessa. Ognuno è la propria voce. C’è un intimo legame fra la voce e la percezione dei nostri stati d’animo. Un mio insegnante diceva: ”che la vostra parola sia voi stessi, che la sua perfezione di pronuncia non sia calcolata”. La parola deve affermarsi come melodia dolce, non come un insieme di segmenti sonori. La voce è anche energia che scorre sotto forma di suono, attraverso di noi. Col lavoro che faccio, il mio modo di porgere le parole deve essere assolutamente naturale. Lo speaker non può permettersi di essere enfatico, di esagerare nell’interpretazione.
Cosa c’è da fare per imparare a parlare correttamente?
L’essere umano non fa che perfezionare i suoi primi vagiti per tutta la vita. Ma è ascoltandola che si impara una lingua, ascoltandola correttamente. Molti difetti di articolazione si formano nell’ambiente familiare, i genitori spesso si compiacciono che il piccolo parli in un certo modo e non aiutano la pronuncia difettosa, che, per pigrizia, resterà invariata col passare del tempo. Voglio dire che, al di là della pronuncia italiana perfetta o di un ricco vocabolario, è importante fare in modo che ogni parola esca dalla nostra bocca sufficientemente scolpita. E per far capire quello che diciamo dobbiamo avere il dominio dell’articolazione dei suoni. L’adulto per migliorare la propria pronuncia deve avere pazienza, esercizio e cura. In generale, tutte le voci non esercitate sono deboli, anche perché parlare è un atto talmente naturale, che spesso non prestiamo attenzione ai meccanismi che regolano la nostra voce. Il mio primo consiglio è l’ascolto: ricevere i suoni, sentirli, apprezzarli, riconoscerli, analizzarli. L’ascolto di se stessi e l’ascolto degli altri per confrontarsi, correggersi. Le voci che tanto ammiriamo, al di là delle caratteristiche innate, sono frutto di costanti esercizi.
Per chi ha uno spiccato accento regionale, c’è speranza di mitigare le inflessioni dialettali?
Esiste un italiano piemontese, veneto, siciliano. Ogni regione ha la sua spiccata inflessione, ma con l’esercizio si può ottenere una pronuncia neutra. Quando ascoltiamo le voci del doppiaggio, ad esempio, non siamo in grado di capire la provenienza regionale dell’attore, eppure ci sono attori veneti, siciliani, piemontesi.
Nel tuo metodo di insegnamento, ormai consolidato e largamente sperimentato, quali le regole per una buona dizione?
A parte l’ascolto e l’articolazione di cui parlavo prima, dedico molto spazio alla respirazione. Il respiro è il veicolo della parola, influisce nell’intonazione della frase, nella corretta scansione. Dobbiamo imparare a controllarlo. Una respirazione corretta aiuta la postura, dà sicurezza e rilassa le corde vocali che, quando sono in tensione, vengono male utilizzate con conseguenti raucedini, afonie. Ma molto importante è che si crei un ambiente piacevole e rilassante; propongo sempre nuovi esercizi, spesso divertenti, che aiutino il gruppo ad unirsi. Non può esserci ascolto senza un gruppo omogeneo. Spesso alla fine dei corsi nascono nuove amicizie.
Sappiamo che nei tuoi corsi ti appassioni a ciò che insegni e ricerchi continuamente stimoli efficaci all’apprendimento. Quando ti ritieni soddisfatta?
La prima soddisfazione è riuscire a mantenere il gruppo intatto fino alla fine del corso, e spesso nasce l’esigenza di approfondire gli argomenti trattati in corsi successivi. E poi l’entusiasmo, la passione che nasce. E’ già una soddisfazione notare che certi aspetti, certe sfumature della nostra lingua non sono più scontati, ma fonte di continua scoperta.
Quali esigenze spingono le persone a frequentare i tuoi corsi di dizione?

Molteplici, ma con una costante: migliorare il rapporto con se stessi e con gli altri. Non è vero che una voce curata perde di spontaneità. Il poter usare una pronuncia corretta quando lo riteniamo opportuno, contribuisce a darci più sicurezza. Saranno poi le nostre emozioni, il nostro vissuto a colorare la nostra voce e renderla unica.
Gianni Gastaldon